Marzo 2022 – Deathspell Omega

 

L’annata prende decisamente il volo su fetide ali di pipistrello verso altezze impreviste per merito dei più grandi dischi usciti in marzo: come solo nelle migliori mensilità in assoluto, il terzogenito nella notte del 2022 ha regalato un pokerone di album discussi al minimo di quattro mani dall’interezza dello staff, tutti contraddistinti da un carico di profondità seriamente non comune. E se il mese in cui esce un nuovo lavoro dei Deathspell Omega non è forse così strabiliante o sorprendente che possa essere definito con aggettivi di profondità e riuscita, questo non deve in alcun modo adombrare gli altri tre candidati in lista; tutti così belli a parere di chi scrive da meritare di essere elencati già qui nell’introduzione.
Oggi si passerà dunque dal misterioso collettivo con sede francese e propaggini allungate verso il resto d’Europa, nel tramite del francamente già inarrivabile “The Long Defeat” (Norma Evangelium Diaboli, va da sé), alla concettualmente non lontana Finlandia degli Aethyrick dell’ancor grandioso “Pilgrimage” (The Sinister Flame Records), tornando poi nella terra dei cugini d’Oltralpe per altri esponenti di quel mondo Orthodox d’inizio anni 2000 giunto (dopo una evidentemente fruttuosa parentesi di silenzio durata dieci anni tondi) al traguardo del suo più bel disco in assoluto con l’“Hollow Void” degli Hell Militia edito per Season Of Mist nella sua costola Underground Activists, volendo finire con un debutto in cui riporre enormi speranze fin da subito: il “Morgenrødens Helvedesherre” dei danesi Heltekvad, fuori per Eisenwald, che all’ascolto non necessita assolutamente di parentele umane coi Morild (si rispolveri o riscopra “Så Kom Mørket…” del 2019!) per generare interesse…
Senza ulteriori indugi si alzi però qui ed ora il sipario per qualcosa di realmente imponente: una nuova era, nei versi e nei fatti.

 

 

Tre ere, tre medium, tre storie, tre voci narranti, tre cuori che battono all’unisono eppure divergenti in dialettica, tre menzogne ed altrettante verità. Tre premesse visive, aurali e filosofiche; tre possibili conclusioni, infuse nel suono disilluso dell’amarezza e del contegno distaccato di chi ha visto un po’ più lontano e in profondità di tutti gli altri. Di chi ha voluto farlo. Tre trame, una leggenda che non parla di nessuno eppure del mondo intero; un protagonista, tre cantori. Tre apocalissi, tre rivelazioni. Tre lunghissimi passi davanti a chiunque altro, nessuno indietro. Perché s’è vero, e lo è, che vestigia nulla retrorsum resta forse il motto e paradigma più universalmente esplicativo per un percorso come quello del collettivo Deathspell Omega, è altrettanto vero -in uno squisito quanto sempre pienamente riuscito tentativo fortemente enantiodromico sotto ogni aspetto- che ogni disarmonia porta con sé la sua profonda e bellissima armonia; che ogni estrema novità, ogni tremenda rottura, ogni futuro visionario ha dalla sua un tentativo congenito di ciclicità e ritorno da cercare per trovare la propria spiegazione al paradosso. Perché “The Long Defeat” è davvero il suono di bile e veleno ferocemente distillati e addizionati da menti superiori in arte raramente tanto totale fino alla caduta dell’ultima foglia di un albero senza foglie, è davvero il suono della caduta di una intera civilizzazione nella dualità della sua stessa mano e del suo giudizio. Stupendamente consapevoli che – eadem, sed aliter!”

L’oggetto dell’indagine dei Deathspell Omega sembra spostarsi, in questa nuova e terza era, dai tentacolari artigli del caos alle misteriose e confuse spire del vuoto: in una visione complementare, dalla spiccata curiositas individualistica radicalmente opposta al brulicare estatico ed inebetito della moltitudine cieca di “The Furnaces Of Palingenesia”, il collettivo francese porta qui avanti una narrazione che, articolata fra interrogativi che affondano nella carne e dilanianti decisioni, si dipana in un dialogo di grevi ed abissali voci nere. Per certi versi mai così umani, intimisti e terreni dai tempi di “Diabolus Absconditus”, ma non più chiusi in un soffocante guscio di grave solipsismo, bensì quasi liquidi, avvolgenti e spaventosamente lucidi: una rinascita battezzata dalla purezza del fuoco e destinata ancora una volta a battere le tappe di morte, silenzio e oblio; rivolta verso sentieri in cui l’orrore degli dei è nulla in confronto alla paura infantile di compiere il più impercettibile passo senza il favore delle stelle a rischiarare la strada.”

Ritorno della corazzata Deathspell Omega con la imprevedibile collaborazione di nomi illustri quali Mortuus (Funeral Mist, Marduk) ed M. (Mgła), “The Long Defeat” è un ulteriore tassello nel percorso sperimentale ormai da quasi due decenni intrapreso dalla band e delinea in maniera ancora più netta una padronanza compositiva che probabilmente nessun’altro possiede nell’intera scena musicale estrema. Il muro sonoro che stritolava i polmoni di “The Furnaces Of Palingenesia” viene qui ulteriormente rinvigorito da qualche anno di affinamento e dalla partecipazione dei due ospiti citati in precedenza, riuscendo con ossimori ed eclettismo a scurire ulteriormente un prodotto già di per sé asfissiante e privo di luce. Questa ulteriore discesa negli abissi eleva l’album verso lidi di eccellenza difficilmente raggiungibili, ma allo stesso tempo lo rende anche emotivamente molto meno fruibile rispetto agli ultimi tre lavori e confina forse l’album ad essere ascoltato solo in determinate situazioni e con uno specifico mindset. In quel caso, unico. Ma da usufruirne responsabilmente.”

“Risulta sempre difficile parlare di un nuovo lavoro del trio francese, perché ad ogni loro nuova pubblicazione, da un lato, la quantità di dettagli da metabolizzare è immane; dall’altro, perché le ovvie parole di elogio al riguardo risulterebbero già trite e ritrite, cosa che non rispecchia tuttavia affatto la proposta musicale in grado di cambiare ad ogni nuovo album, in grado di diversificare le carte disposte maniacalmente sulla tavola della loro visione, come nel caso di questo nuovo “The Long Defeat” in cui l’avanguardia sonora dei Deathspell Omega ormai divenuta d’autore con tutto il suo carico di elementi che ne sono firma, lascia, sebbene di poco, posto ad una in parte inedita e personalissima loro versione di melodia; fattore che probabilmente rende l’album come uno dei più immediatamente “accessibili” (virgolette assolutamente obbligatorie) della discografia, rimescolata grazie ad una grandiosa organicità di mid-tempo e blast-beat che lascia a bocca aperta, ma soprattutto grazie al prezioso contributo vocale di due nuovi sodali narrativi ancora una volta stranieri per nazionalità -ma non per spiritualità- come Mortuus e mister M.: la vera chicca, ne servisse una, di questo nuovo album.”

Il quarto full-length del nostro amato ed abbonato duo di finlandesi, gli Aethyrick di “Pilgrimage”, fuori ancora una volta per l’indissolubile alleata The Sinister Flame; ancora una volta fuori a distanza di un mero anno dalla precedente vetta. Ieri così per “Apotheosis”, che nel corso di tutto il 2021 non ci siamo stancati di raccomandarvi. Oggi idem negotii: cercheremo di non farvi dimenticare “Pilgrimage” durante il resto dell’annata almeno, per i molti motivi che seguono.

Proseguire con sempre maggiore raffinatezza e riuscita nel preciso percorso tracciato a cavallo di “Gnosis” e della chiusura della prima trilogia degli Aethyrick battezzata lo scorso anno con l’eloquente titolo di “Apotheosis” è improbabile, lo si conceda. Impossibile, soprattutto negli occhi e nelle orecchie di chi giustamente pretende l’evoluzione dell’operato di un duo con un nome ormai resosi grande come quello dei finlandesi. E proprio da tali premesse “Pilgrimage” emerge quale un disco ancora più raro e sopraffino, un vero regalo: perché fa e riesce esattamente in quella impossibilità rendendo coloro che, con la sagacia dello studioso e dell’esploratore nel medesimo operato, aprono un nuovo ciclo fatto di otto inedite spine e una capacità ancora migliorata e sempre più potente di parlare la propria lingua; di comunicare nel profondo con mezzi che sembrano scarni, eppure valgono le infinità assolute di un mondo intero.”

Se le splendide movenze scintillanti di “Apotheosis” apparivano un anno fa come un punto di arrivo, l’agognato raggiungimento ultimo di un percorso spirituale, stilistico e tecnico, un progetto tanto coerente e tuttavia in graduale evoluzione come gli Aethyrick non tollera stasi di sorta, tracciando invece una via parallela che, con lo stesso bagaglio d’esperienza ed elevazione, sia in grado di imboccare un’altra strada dalle sfumature mai cosi dolorose, nostalgiche e struggenti. Con l’eleganza e la raffinatezza che li distingue, tanto marcata quanto sottile da percepire nella sua naturalezza, “Pilgrimage” disseziona ancora una volta i magici elementi del duo finnico, strutturando un’opera itinerante e coesa che pugnala a morte e spacca in due la volta celeste del precedente disco con le sue costruzioni verticali e trasognate, in favore di atmosfere maggiormente asciutte e tangibili; di una crudezza sofferente e grave condotta dalla più emozionante prova vocale che la band abbia mai messo in atto.”

“Alla nevrotica ricerca di scappatoie più o meno sperimentali con cui aggirare le paranoie progressiste di una platea comunque ben inferiore rispetto a quella da loro invece meritata, gli Aethyrick ribadiscono una volta ancora di preferire quello stesso stile sobrio ed elegante finora mano a mano perfezionato e che -senza alcuna lode di circostanza- pochissimi altri saprebbero replicare senza una notevole perdita di smalto nel delicato equilibrio tra forza e grazia al centro della proposta. Lo smerigliato impressionismo del sublime “Apotheosis” lascia spazio in “Pilgrimage” ai possibili picchi assoluti del duo in fatto di pure melodie, cuore e mente in un’identità polimorfa con un piede nella dinamica Black e l’altro nell’emotività Folk, giostranti entro una girandola troppo sofisticata per la plebe eppure priva di alcun reale ostacolo al suo apprezzamento: se non vi piace è perché non lo avete ascoltato, e se non lo avete ascoltato è soltanto colpa vostra.”

Il nostro debutto di oggi, ovvero “Morgenrødens Helvedesherre” av Heltekvad, patrocinato dall’Eisenwald Tonschmiede che sembra essere ormai una assodata garanzia. Meno garante nel Black Metal è in generale la Danimarca che dà i natali al trio, come ci dissimo nel 2019 per i Morild: e difatti qui dentro c’è un Morild, tutti gli Afsky e così via. Ma con qualcosa di profondamente diverso. E s’è vero che lassù continua ad esserci un solo re, e ad essere quello di diamante, pure i ragazzi non scherzano…

L’oscurità, ma soprattutto l’angoscia tutta medievale degli Heltekvad nel loro debutto “Morgenrødens Helvedesherre” non fa prigionieri: soluzioni nervine e claudicanti che dal 2006 sono divenute marchio di fabbrica del Black Metal from Medieval Times, una avvincente dinamica di tempi seriamente lugubri e tormentati spediti con battiti di ciglia dello schizofrenico nella danza tra le più vivaci e veloci, sgraziate fiamme di un’alba rossa e infernale, condite dalle prodezze canore di una voce che non spreca neanche una goccia della sua malata sensibilità in urla esasperate ed angustiate verso un cielo muto come la storia in risposta, e da sprazzi folkloristici che sembrano campionati direttamente dalle piazze sporche di un’altra e lontana età. Tutto il dramma di cui è intessuto un disco come il primo del trio danese si fa presto beffardo, caricaturale come fosse dipinto da un Brueghel degli inferi o un Bosch assillati da depravazioni e dannazioni in terra, e la proposta si smarca quindi felicemente da qualunque paragone con altri che non sia banalmente estetico ed estetizzante.”

Se alcune delle soluzioni melodiche e degli accostamenti sgraziati o aguzzi tra le corde sfrigolanti di “Morgenrødens Helvedesherre” tradiscono certamente un’interpretazione dell’estetica cavalleresca che affonda la lama su ferite già aperte nel passato più o meno recente, altresì vero è che le armonie frenetiche degli Heltekvad si interlacciano fra loro in un dinamismo tanto mozzafiato nella dimensione del singolo pezzo, quanto focalizzato e ben costruito sui trentacinque minuti di rincorse e orpelli incredibilmente aguzzi. I marginalia aurei dei giovani danesi si accavallano con freschezza e libertà, inseguendo soluzioni che avvolgono le partiture con una patina di scanzonata fierezza senza mai appesantire di eccessiva gravità o complessità le composizioni: un esordio affascinante e sanguigno di una band in grado di spiccare per efficacia e risultato, nell’auspicio che possa essere il preambolo di future gesta ancor più cromaticamente varie e peculiari.”

“Che sia il prestigioso endorsement di Eisenwald oppure la voce esagitata narrante vicende di cappa e spada, il vociferato esordio degli Heltekvad presenta come unico difetto obiettivo qualche ovvio rimando di gusto di troppo agli impareggiabili compagni di scuderia Ungfell – e a sua volta, pertanto, alla ormai nitida scuola tenuta dai primi Peste Noire. La saggezza dei danesi li fa però desistere dallo scontro impari col buon Menetekel o chiunque altri sul terreno del songwriting, evitando arrangiamenti più audaci del dovuto e lavorando di contro sulla schiera di lead e hook sghembi piazzati come esca nell’ignaro orecchio degli astanti. Il pericolo di una copia slavata di un’altra band coeva si sgretola perciò in trentacinque minuti di notevole trasporto e fattezze stravaganti perfettamente messi a fuoco, a cui per il momento difetterà magari il guizzo del grande compositore ma non certo l’istinto artigianale e la voglia di dare un’onesta alternativa d’altri tempi al grigiore del presente.”

Giungono al debutto i danesi Heltekvad con la loro proposta che, per l’interesse aggregatosi loro attorno si potrebbe mediaticamente considerare come “la risposta europea agli Stormkeep“; specie considerato che negli ultimi anni stiamo assistendo ad un grande fermento nei reami di un certo Black Metal di stampo squisitamente medievale. Ma se gli statunitensi puntano tutto sull’atmosfera e sul trionfo sinfonico d’altri tempi oscuri, i danesi hanno decisamente un altro approccio: più feroce, più ferale, più sghembo, storto ma anche scanzonato e in certo senso festaiolo nella sua accezione cavalleresca, dove le chitarre sono le assolute protagoniste; dove, in alcuni punti, e specie nei riff più sgangherati, ricordano i primissimi Peste Noire (in una versione meno simbolista, poetica e sublime, ovviamente). Ottimi in particolare e meno passivi di parallelismi diretti anche gli scream del cantante, che spaziano fra urla roche ad acuti acidissimi decisamente degni di nota. Davvero un buon inizio.”

Pugnali sguainati, terra che trema, occhi vacui, sbiancamento spettrale e tante, tantissime sberle al plutonio in partiture di una nerezza tale che sembrano costruire un manicomio e raderlo al suolo: sono gli Hell Militia che tornano francamente inattesi dopo una decade, felicemente rivoluzionati, e spaccano il mondo con la concretezza devastante e non priva di una tutta nuova inventiva in “Hollow Void”, uscito a metà mese per Season Of Mist.

Il nuovo Hell Militia risplende intensissimo di una luce senza vita, di un pallore mortale che riflette decadenza, odio ed inflessibilità dalla discliplina marziale nella sua devastante inumanità, come una inquietante infinità di ferite sanguinolente che si aprono all’unisono. Dire che “Hollow Void”, qualcosa di simile a un figlio bastardo di “Disiplin” (Disiplin, 2003) e “Blood Libels” (Antaeus, 2006), è il miglior disco di sempre della band francese non solo è un discreto eufemismo, ma non rende minimamente l’idea, nel paragone quasi ignobile, di quanto soddisfacente e grande di per sé l’album effettivamente sia: semplicemente irresistibile fin dalle prime battute, perché dotato di una carica travolgente, di una pacca annichilente che sposta indietro la sedia dell’ascoltatore in un trionfo di ultraviolenza orchestrata con la migliore delle sintassi musical-poetiche di distruzione e nerezza opprimente – eppure sempre più interessante e gratificante ad ogni nuovo ascolto, sprovvisto del benché minimo calo di tensione. Non solo per merito di un nuovo, eccezionale cantante meglio di qualunque cosa abbia mai sfornato il gruppo, dunque, bensì un lavoro come nelle sue anti-umane e distruttive coordinate non si ascoltava da davvero troppo tempo.”

Laddove le sconcertanti strutture dei nove pezzi di “Hollow Void” si innalzano solide e geometriche con un’attitudine nera e quasi industriale di norvegese memoria, in grado di discretizzare e appesantire il riffing in cadenze alienanti e asfissianti, una strisciante e sibilante vena di serpentina perversione penetra la concretezza di quelle mura: come suggerito e annunciato dalla delirante visione di Comaworx [Manuel Tinnemans] in copertina, quella simmetria monolitica e sabbiosa serba al suo interno le putrescenti scorie di una sacralità dimenticata, tradita, corrotta dallo scorrere del tempo, e palesata dalle sinistre e nascoste dissonanze dal gusto più francese che mai, nonché reale collante dell’uscita. Corrosivo, chirurgico e malsano: il nuovo disco degli Hell Militia è una scarica di violenza efferata e destabilizzante, in grado di travolgere, disorientare e tagliare su più piani; capace inoltre di far breccia in pochi minuti forte della qualità del suo impatto frontale per poi penetrare sottopelle dopo alcuni ascolti con un’arsenale di sottilissimi aghi.”

Pare davvero di troppo, questa volta e dopo quattro dischi del genere nelle loro grandissime diversità ma nel comune fronte qualitativo a cui consegnano, fornire un’ulteriore lista di suggerimenti vari ed eventuali per il singolo gusto o la singola ricerca del lettore: sia per l’impegno che crediamo questi quattro brutti ceffi nelle note dei Deathspell Omega [edit: a cui pare sia stato cancellato il Bandcamp…?], degli Aethyrick, degli Heltekvad e degli Hell Militia daranno a chiunque trovi solitamente qualcosa di buono su queste pagine, ma anche per quello che staranno probabilmente e (più o meno…) lietamente già dando nel frattempo i nuovi parti del tandem svedese Lifvsleda (“Sepulkral Dedikation”, di cui s’inizia a consigliare l’approfondimento a chi cercasse dell’altro in aggiunta, fin da ora) e Månegarm (con l’altrettanto atteso “Ynglingaättens Öde”, uscito giusto una manciata di giorni fa e che già fa le sue prime vittime). Ma non temete: nel corso dell’in corso aprile avremo presumibilmente anche e ancora altro di cui parlarci… E persino di più, non occorre dirlo, quando anche il mese numero quattro del 2022 sarà concluso e disponibile alla vivisezione sotto i nostri ferri del mestiere.

 

Matteo “Theo” Damiani

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